Post isolamento: sindrome della capanna o presa di coscienza?

capanna

Molti parlano di sindrome della capanna riferendosi al fenomeno per cui molte persone alla fine del periodo di isolamento sociale dovuto alla pandemia, stentano a ritornare alla normalità, preferendo rimanere per quanto è possibile nell’intimità della vita domestica. Con il termine sindrome si intende, in medicina, un insieme di sintomi e segni clinici che costituiscono le manifestazioni cliniche di una o diverse malattie, indipendentemente dall’eziologia che le contraddistingue.
Così descritto, il gesto di chi ha deciso di rinunciare ad una parte di normalità assume un’accezione negativa che rimanda solamente ad una mancanza, ad una deficienza, ad un disadattamento dell’individuo. Sicuramente c’è chi ha sofferto molto durante l’isolamento e si trova oggi impreparato per paura, per disorientamento alla chiamata della ripartenza. Ma altri, se pur timorosi e smarriti, hanno vissuto il brusco e profondo momento di discontinuità dalla quotidianità come contesto per percepire differenze importanti e sostanziali. La mente apprende per differenze ed in questo senso sin quando non avviene un evento che interrompa la soluzione di continuità, persevera in una delle più importanti capacità che ci ha reso plastici e versatili: si adatta nel miglior modo possibile a ciò che le è proposto. Un pò come in psicoterapia, sin quando l’individuo non coglie o subisce un evento significativo più o meno traumatico, spesso non sviluppa l’esigenza di un cambiamento e ri-adattamento, ma persevera economicamente a spendersi nello stesso livello logico ed interpretativo della realtà che si propone o gli si propone.
Come la storiella della rana che immersa nell’acqua che riscalda lentamente non avverte una differenza tale da poterla informare che da li a poco non ci saranno più le condizioni per sopravvivere: bolle e lessa senza consapevolezza. L’esperienza traumatica e repentina dello stop del mondo ha fornito l’occasione per uscire da una normalità che per molti produceva silenziosamente uno scarto avvertito come insoddisfazione, sofferenza, difficoltà. Subito prima della pandemia molti percepivano la routine come unica realtà disponibile che esigeva l’adeguato e corrispettivo grado di adattamento e compromesso. Il successivo imposto fermo ha creato le condizioni per una percezione di realtà differente. Meno frenetica, ricca di tempo da poter dedicare a se stessi e agli altri. Una migliore qualità di vita, con città meno congestionate dal traffico, aria pulita e gradevole all’olfatto, meno rumori di disturbo, meno luoghi, o meglio non luoghi, affollati da persone li presenti complementariamente al tempo non impiegato al lavoro, dedite alla residuale soddisfazione di consumare ciò che hanno prodotto.
Per coloro che hanno vissuto l’arresto della normalità, senza togliere drammaticità e sofferenza alla sciagura che abbiamo e stiamo attraversando, come opportunità di cogliere benefiche prassi di igiene mentale alle quali adesso non vorrebbero rinunciare, forse è ingiusto parlare di sindrome quanto di sana consapevolezza. Ci sono aspetti della normalità a cui ovviamente non si può e non si deve rinunciare, vedi il lavoro ed i rapporti sociali, ma forse la vera sfida per alcuni è quella di poter ricominciare in maniera diversa. Del resto più volte è stato detto che dopo questa catastrofe molto non sarebbe stato più come prima.
Magari qualcuno ci crede e ci spera.